«Ama e fa’ ciò che vuoi»: è una delle frasi più famose e più citate di Agostino. Pochi però sanno in quale contesto essa si trovi e che cosa significasse nelle intenzioni dell’autore. Il contesto è l’interpretazione della Prima lettera di Giovanni, alla quale il vescovo d’Ippona dedicò un ciclo di dieci omelie, le prime otto predicate dal 14 aprile (domenica di Pasqua) al 21 aprile (ottava di Pasqua) del 407. La frase in questione si trova nell’omelia 7, predicata sabato 20 aprile. Agostino sta commentando i versetti 4-12 del capitolo 4 dell’epistola giovannea, un passaggio cruciale del testo sacro, lì dove Giovanni afferma solennemente che «Dio è amore» e che «in questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio […] come vittima di espiazione per i nostri peccati». Nel consegnare suo Figlio al sacrificio della croce, Dio ha dunque rivelato ciò che Egli è, ossia Amore. Anche Giuda, potrebbe obiettare qualcuno, ha consegnato Gesù alla morte, ma il suo fu tradimento; forse che anche Dio ha tradito suo Figlio? No, risponde Agostino, perché il medesimo atto cambia di valore a seconda dell’intenzione con cui viene compiuto: nel caso di Dio, si trattava di amore, nel caso di Giuda di tradimento. Così, anche noi dobbiamo anzitutto porre alla base del nostro agire l’amore per il prossimo; in questo modo, ad esempio, sgridare potrà essere un atto d’amore (come succede tra padre e figlio), mentre al contrario essere gentili senza amore potrebbe essere solo un comportamento interessato (come tra mercante e cliente). Ecco allora l’invito: «Ama e fa’ ciò che vuoi (Dilige et quod vis fac)»: non un’esaltazione del sentimento e del capriccio, bensì un’esortazione alla responsabilità per il bene del prossimo. Qui sotto il testo integrale dell’omelia agostiniana.
OMELIA 7
1. Questo mondo è per tutti i fedeli che cercano la patria ciò che fu il deserto per il popolo d’Israele. Essi vagavano per il deserto ma cercavano la patria: tuttavia, sotto la guida del Signore, non potevano fallire la meta. La loro strada era il comando stesso del Signore. Sebbene essi andassero vagando per quarant’anni, quel loro cammino può essere compiuto in pochissime tappe, note a tutti. Si attardarono non perché abbandonati dal Signore, ma perché Dio voleva provarli. Ciò che anche a noi il Signore promette, è una dolcezza ineffabile, un bene, come dice la Scrittura e come spesso vi abbiamo ricordato, che occhio umano non vide, né orecchio udì, né mai s’è presentato allo spirito dell’uomo (Is 64, 4; 1 Cor 2, 9). Siamo provati dai lavori della vita temporale e le tentazioni della vita presente ci aprono gli occhi. Ma se non volete morire di sete, in questo deserto della vita presente, bevete l’acqua della carità. Essa è la fonte che il Signore ha voluto apprestarci quaggiù, affinché non venissimo meno lungo la strada: beviamone in abbondanza e quando saremo arrivati in patria, ne berremo ancor più abbondantemente. È stato letto da poco il
Vangelo; nelle stesse parole con cui si è conclusa la lettura del brano evangelico, di che cosa avete sentito parlare se non di carità? In realtà noi abbiamo stretto un patto con Dio per cui se vogliamo che egli ci condoni i peccati, anche noi dobbiamo perdonare i peccati che sono stati commessi contro di noi (cf. Mt 6, 12). Ma è appunto la carità che fa perdonare i peccati. Togli dal cuore la carità ed esso conserverà l’odio e non saprà perdonare. Là ci sia la carità ed essa sicuramente perdona, perché non si chiude in se stessa. Tutta quanta questa Epistola, che abbiamo voluto commentarvi, non fa altro, come vedete, che raccomandarci quell’unico bene che è la carità. Non bisogna neanche temere che, ripetendo sempre la stessa raccomandazione, la carità venga in odio. Che cosa si dovrà poi amare, se la carità diventa oggetto di odio? Se da questa carità noi siamo indotti ad amare tutte le altre cose, come dovremmo amare la carità stessa? Ciò che non deve mai stare lontano dal cuore, non stia lontano neppure dalla bocca.
2. Voi, o miei figlioli, già siete da Dio e l’avete vinto (1 Gv 4, 4): chi avete vinto se non l’anticristo? Poco prima Giovanni aveva affermato: Chiunque dissolve Gesù Cristo e afferma che egli non è venuto nella carne, non proviene da Dio (1 Gv 4, 3). Vi abbiamo spiegato, se ricordate, come tutti coloro che violano la carità negano che Gesù Cristo sia venuto nella carne. Non c’era bisogno che Gesù arrivasse in terra se non a causa della carità. Egli ci raccomanda quella carità di cui parla lui stesso nel Vangelo: Nessuno può aver maggior amore di chi dà la vita per i suoi amici (Gv 15, 13). Il figliuolo dell’uomo avrebbe mai potuto dare per noi la sua vita, senza rivestirsi della carne, nella quale potesse morire? Chi dunque viola la carità, qualunque cosa dica con la lingua, nega con la sua vita che Cristo è venuto nella carne; ed egli è un anticristo, dovunque si trovi, in qualsiasi luogo sia entrato. Che cosa dice Giovanni a quelli che sono cittadini della patria alla quale sospiriamo? Voi lo avete vinto. Come l’hanno vinto? Perché colui che sta in voi è più grande di colui che è nel mondo (1 Gv 4, 4). Perché costoro non attribuissero alle proprie forze la vittoria e non venissero vinti dall’arroganza che è frutto di superbia (il diavolo vince chi riesce a rendere superbo) ma conservassero, secondo il suo volere, l’umiltà, che cosa dice loro? Lo avete vinto. Chiunque sente dire: avete vinto, alza la testa, si pavoneggia, e vuole essere lodato. Ma non esaltarti, considerando invece chi in te ha vinto. Perché hai vinto? Perché colui che sta in voi è più grande di colui che è nel mondo. Sii umile, porta il Signore Dio tuo, sii la cavalcatura di colui che ti monta. È un bene per te che lui ti diriga e lui stesso guidi il cammino. Se non avessi lui seduto in sella, potresti alzare la testa, potresti dar calci: ma guai a te, che resteresti senza un reggitore; perché questa libertà ti conduce alle belve per essere da loro divorato.
3. Questi sono del mondo. Chi? Gli anticristi. Avete già udito chi siano. E li riconoscete, se voi non lo siete: chi infatti lo è, non li riconosce. Essi sono nel mondo: perciò parlano delle cose del mondo ed il mondo li ascolta (1 Gv 4, 5). Chi sono quelli che parlano delle cose del mondo?
Volgete pure l’attenzione a coloro che parlano contro la carità. Avete sentito le parole del Signore: Se perdonerete agli uomini i loro peccati, anche il vostro Padre dei cieli perdonerà i vostri peccati; ma se non perdonerete, neanche il Padre perdonerà a voi (Mt 6, 14-15). È la verità che lo afferma; che se, al contrario, non è la verità, puoi pure contraddire. Se sei cristiano e credi a Cristo, sai che lui disse: Io sono la verità (Gv 14, 6). Si tratta, dunque, di una affermazione vera e sicura. Senti invece gli uomini che parlano il linguaggio del mondo. Ti dicono: perché non ti vendichi e lasci che l’altro si glori di averti fatto questo? Orsù! fagli capire che ha a che fare con un uomo. Parole del genere si sentono dire tutti i giorni. Quelli che le dicono parlano il linguaggio del mondo; ed il mondo li ascolta. Soltanto quelli che amano il mondo pronunciano parole del genere e soltanto quelli che amano il mondo le ascoltano. Chi ama il mondo e trascura la carità nega, come avete sentito, che Gesù sia venuto nella carne. Che forse il Signore ha agito così nella carne? Quando era schiaffeggiato, volle forse vendicarsi? Quando pendeva dalla croce, non disse forse: Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno (Lc 23, 34)? Se lui, che ne aveva il potere, non minacciava, perché mai tu minacci, perché avvampi d’ira tu che sei sottoposto all’autorità altrui? Egli è morto perché così volle, e non minacciava; tu non sai quando morirai e minacci?
4. Noi veniamo da Dio. Qual è la ragione? Vedete se c’è altra ragione che non sia la carità. Noi veniamo da Dio. Chi conosce Dio, ci ascolta: chi non è da Dio, non ci ascolta. Questo è il segno che ci fa riconoscere lo spirito di verità e lo spirito dell’errore (1 Gv 4, 6). Chi ci ascolta ha lo spirito di verità; chi non ci ascolta ha lo spirito di errore. Vediamo di che cosa ci ammonisce e ascoltiamo piuttosto lui che ammonisce in spirito di verità; non gli anticristi, non gli amatori del mondo, non il mondo. Se siamo nati da Dio, Dilettissimi... Attenzione al seguito. Ci aveva prima detto: Noi siamo da Dio. Chi conosce Dio, ci ascolta; chi non viene da Dio, non ci ascolta. Questo è il segno col quale riconosciamo lo spirito di verità e quello dell’errore. E così ci aveva reso attenti al fatto che chi conosce Dio lo ascolta, chi non lo conosce non l’ascolta; e questo è il criterio di distinzione tra spirito di verità e d’errore. Vediamo dunque cos’è questa sua ammonizione, che dobbiamo sentire da lui. Dilettissimi, amiamoci a vicenda. Perché? Perché forse ci ammonisce un uomo? Perché l’amore viene da Dio. Ha posto un valido fondamento al dovere della carità dicendo che essa viene da Dio: ma ci dirà ancora di più, se ascoltiamo attentamente. Ha appena detto: L’amore viene da Dio; e chiunque ama, è nato da Dio e ha conosciuto Dio. Chi non ama, non conosce Dio. Perché? Perché Dio è amore (1 Gv 4, 7-8). Che cosa poteva dire di più, o fratelli? Se non ci fosse in tutta questa Epistola e in tutte le pagine della Scrittura nessuna lode della carità all’infuori di questa sola parola che abbiamo inteso dalla bocca dello Spirito, che cioè Dio è carità, non dovremmo chiedere di più.
5. Vedete dunque che agire contro l’amore, significa agire contro
Dio. Nessuno dica: io pecco contro un uomo, quando non amo il fratello (sentite!); e peccare contro un uomo è cosa da poco; purché non pecchi contro Dio! Ma come non pecchi contro Dio, quando pecchi contro l’amore? Dio è amore. Lo diciamo forse noi? Se fossimo noi a dire: Dio è amore, forse qualcuno di voi si scandalizzerebbe e direbbe: che cosa ha detto? Che cosa ha voluto dire, affermando che Dio è amore? Dio ci ha dato il suo amore, ci ha donato il suo amore. L’amore proviene da Dio: Dio è amore. Eccovi, o fratelli, nelle vostre mani le Scritture di Dio: questa Epistola è una di quelle canoniche; si legge in tutte le chiese, è ammessa sull’autorità del mondo intero, essa stessa ha edificato il mondo. Senti ciò che ti vien detto da parte dello Spirito di Dio: Dio è amore. Se osi, ormai, agisci pure contro Dio e non amare il fratello.
6. Come conciliare le due espressioni appena ricordate: L’amore proviene da Dio, e l’amore è Dio? Dio è Padre e Figlio e Spirito Santo: il Figlio è Dio da Dio e lo Spirito Santo è Dio da Dio; questi tre sono un solo Dio, non tre dèi. Se il Figlio è Dio, se lo Spirito Santo è Dio e se ad amare è solo colui nel quale abita lo Spirito Santo, allora veramente l’amore è Dio; Dio, però, perché procede da Dio. L’Epistola ha le due espressioni: L’amore proviene da Dio e l’amore è Dio. La Scrittura solo del Padre non afferma che viene da Dio. Quando ti incontri nelle parole da Dio, o si intende parlare del Figlio o dello Spirito Santo. Dice l’apostolo Paolo: L’amore di Dio è diffuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato (Rm 5, 5); e da qui comprendiamo che è lo Spirito Santo l’amore. È esso, infatti, quello Spirito Santo, che i cattivi non possono ricevere; è esso la fonte di cui la Scrittura dice: Abbi una sorgente d’acqua in tua esclusiva proprietà e nessun estraneo la usi con te (Prv 5, 16-17). Tutti quelli che non amano Dio sono estranei, anticristi. E anche se entrano nelle basiliche, non possono annoverarsi tra i figli di Dio; non appartiene loro questa fonte di vita. Anche il malvagio può avere il battesimo; può avere anche il dono della profezia. Sappiamo che il re Saul aveva il dono della profezia; egli perseguitava il santo David e tuttavia fu ripieno dello spirito di profezia e incominciò a profetare (cf. 1 Sam 19). Anche il malvagio può ricevere il sacramento del corpo e del sangue del Signore: di costoro infatti è detto: Chi mangia e beve indegnamente, mangia e beve la propria condanna (1 Cor 11, 29). Anche il malvagio può portare il nome di Cristo, dirsi cioè cristiano ed essere malvagio; di costoro è detto: Disonoravano il nome del loro Dio (Ez 36, 20). Anche il malvagio dunque può avere tutti questi sacramenti; ma il malvagio non può possedere la carità restando malvagio. È questo il dono proprio dei buoni; questa la sorgente ad essi esclusiva. Lo Spirito di Dio vi esorta a bere di questa fonte; lo Spirito di Dio vi esorta a bere di se stesso.
7. In questo si è manifestata la carità di Dio per noi. Abbiamo in queste parole l’esortazione ad amare Dio. Potremmo forse amarlo, se lui per primo non ci avesse amato? Se siamo stati pigri nell’amarlo, non siamolo nel corrispondere al suo amore. Per primo egli ci ha amati; e neppure ora siamo disposti ad amarlo. Egli ci ha amati quando eravamo
peccatori, ma ha distrutto la nostra iniquità; ci ha amati quando eravamo ammalati, ma è venuto a noi per guarirci. Dio dunque è amore. In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi, che egli ha mandato in questo mondo il suo Figlio Unigenito, affinché potessimo vivere per mezzo suo (1 Gv 4, 9). Il Signore stesso ha detto: Nessuno può avere maggior amore di chi dà la sua vita per i suoi amici, e l’amore di Cristo verso di noi si dimostra nel fatto che egli è morto per noi. Quale è invece la prova dell’amore del Padre verso di noi? Che egli ha mandato il suo unico Figlio a morire per noi. Così afferma l’apostolo Paolo: Egli che non risparmiò il suo proprio Figlio, ma lo diede per noi tutti, come non ci ha dato insieme con lui tutti i doni? (Rm 8, 32). Ecco, il Padre consegnò Cristo e anche Giuda lo consegnò; forse che il fatto non appare simile? Giuda è traditore; dunque anche il Padre è traditore? Non sia mai, tu dici. Non lo dico io ma l’Apostolo: Lui che non risparmiò il proprio Figlio, ma lo diede per tutti noi. Il Padre lo diede e Cristo stesso si diede. L’Apostolo infatti dice: Colui che mi amò e diede se stesso per me (Gal 2, 20). Se il Padre diede il Figlio ed il Figlio se stesso, Giuda che cosa fece? Una consegna è stata fatta dal Padre, una dal Figlio, una da Giuda: si tratta di una identica cosa: ma come si distinguono il Padre che dà il Figlio, e il Figlio che dà se stesso e Giuda il discepolo che dà il suo maestro? Il Padre ed il Figlio fecero ciò nella carità; compì la stessa azione anche Giuda, ma nel tradimento. Vedete che non bisogna considerare che cosa fa l’uomo ma con quale animo e con quale volontà lo faccia. Troviamo Dio Padre nella stessa azione in cui troviamo anche Giuda: benediciamo il Padre, detestiamo Giuda. Perché benediciamo il Padre e detestiamo Giuda? Benediciamo la carità, detestiamo l’iniquità. Quanto vantaggio infatti venne al genere umano dal fatto che Cristo fu tradito? Forse che Giuda ebbe in mente questo vantaggio nel tradire? Dio ebbe in mente la nostra salvezza per la quale siamo stati redenti; Giuda ebbe in mente il prezzo che prese per vendere il Signore. Il Figlio ebbe in mente il prezzo che diede per noi, Giuda pensò al prezzo che ricevette per venderlo. Una diversa intenzione dunque, rese i fatti diversi. Se misuriamo questo identico fatto dalle diverse intenzioni, una di esse deve essere amata, l’altra condannata; una deve essere glorificata, l’altra detestata. Tanto vale la carità! Vedete che essa sola soppesa e distingue i fatti degli uomini.
8. Dicemmo questo in riferimento a fatti simili. In riferimento a fatti diversi troviamo un uomo che infierisce per motivo di carità ed uno gentile per motivo di iniquità. Un padre percuote il figlio e un mercante di schiavi invece tratta con riguardo. Se ti metti davanti queste due cose, le percosse e le carezze, chi non preferisce le carezze e fugge le percosse? Se poni mente alle persone, la carità colpisce, l’iniquità blandisce. Considerate bene quanto qui insegniamo, che cioè i fatti degli uomini non si differenziano se non partendo dalla radice della carità. Molte cose infatti possono avvenire che hanno una apparenza buona ma non procedono dalla radice della carità: anche le spine hanno i fiori; alcune cose sembrano aspre e dure; ma si fanno, per instaurare una disciplina, sotto il
comando della carità. Una volta per tutte dunque ti viene imposto un breve precetto: ama e fa’ ciò che vuoi; sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore; sia in te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene.
9. In questo sta l’amore. In ciò si è manifestato l’amore di Dio in noi: che Dio mandò il Figlio suo Unigenito in questo mondo, affinché noi viviamo per mezzo suo. In questo è l’amore, non nel fatto che noi abbiamo amato, ma nel fatto che lui stesso ci ha amati. Noi non abbiamo amato lui per primi: infatti egli per questo ci ha amati, perché lo amassimo. E Dio mandò il Figlio suo quale propiziatore per i nostri peccati: propiziatore, sacrificatore. Egli immolò la vittima per i nostri peccati. Dove trovò la vittima? Dove trovò quella vittima pura che voleva offrire? Non la trovò e offrì se stesso. Carissimi, se Dio così ci amò, dobbiamo anche noi amarci vicendevolmente (1 Gv 4, 9-11). Pietro — disse — mi ami? Ed egli rispose: Ti amo. Pasci le mie pecore (Gv 21, 15-17).
10. Nessuno mai vide Dio (1 Gv 4, 12). Dio è invisibile; non bisogna cercarlo con gli occhi ma col cuore. Se volessimo vedere il sole, toglieremmo gli impedimenti agli occhi del corpo, per poter vedere la luce; così se vogliamo vedere Dio, purghiamo quell’occhio con cui Dio può essere visto. Dove si trova questo occhio? Ascolta il Vangelo: Beati i mondi di cuore, perché essi vedranno Dio (Mt 5, 8). Nessuno si faccia un’idea di Dio seguendo il giudizio degli occhi. Costui si farebbe l’idea di una forma immensa oppure prolungherebbe negli spazi una grandezza immensurabile, come questa luce che colpisce i nostri occhi e che egli stende all’infinito quanto può; oppure si farebbe di Dio l’idea di un vecchio dall’aspetto venerando. Non devi avere pensieri di questo genere. Se vuoi vedere Dio, hai a disposizione l’idea giusta: Dio è amore. Quale volto ha l’amore? quale forma, quale statura, quali piedi, quali mani? nessuno lo può dire. Esso tuttavia ha i piedi, che conducono alla Chiesa; ha le mani, che donano ai poveri; ha gli occhi, coi quali si viene a conoscere colui che è nel bisogno; dice il salmo: Beato colui che pensa al povero ed all’indigente (Sal 41 [40], 2). La carità ha orecchi e ne parla il Signore: Colui che ha orecchi da intendere, intenda (Lc 8, 8). Queste varie membra non si trovano separate in luoghi diversi, ma chi ha la carità vede con la mente il tutto e allo stesso tempo. Tu dunque abita nella carità ed essa abiterà in te; resta in essa ed essa resterà in te. È mai possibile, o fratelli, che uno ami ciò che non vede? Perché allora, quando si fa la lode della carità, vi sollevate in piedi, acclamate, date lodi? Che cosa vi ho mostrato? Vi ho forse mostrato alcuni colori? Vi ho messo innanzi oro e argento? Vi ho sottoposto delle gemme tolte da un tesoro? Che cosa di grande ho mostrato ai vostri occhi? Forse che il mio volto nel parlarvi si è mutato? Io sono qui in carne ed ossa, sono qui nella stessa forma in cui ho fatto il mio ingresso; anche voi siete qui nella stessa forma in cui siete venuti. Ma si fa la lode della carità e uscite in acclamazioni. Certamente i vostri occhi non vedono nulla. Ma come essa vi piace quando la lodate, così vi piaccia
di conservarla nel cuore. Capite, o fratelli, ciò che voglio dire: io vi esorto, per quanto il Signore lo concede, a procurarvi un grande tesoro. Se si mostrasse a voi un vaso d’oro cesellato, indorato, fatto con arte, ed esso attraesse i vostri occhi e attirasse a sé la brama del vostro cuore, e la mano dell’artista vi piacesse così come il peso della materia e lo splendore del metallo, forse che ciascuno di voi non direbbe: “oh, se avessi quel vaso”? Ma lo avreste detto inutilmente, poiché non era in vostro potere averlo. Oppure, se uno volesse averlo, penserebbe di rubarlo dalla casa di un altro. A voi vien fatto l’elogio della carità; se essa vi piace, abbiatela, possedetela; non è necessario che facciate un furto a qualcuno, non è necessario che pensiate di comprarla. Essa è gratuita. Tenetela, abbracciatela: niente è più dolce di essa. Se di tal pregio essa è quando viene presentata a voce, quale sarà il suo pregio quando è posseduta?
11. Se volete conservare la carità, fratelli, innanzitutto non pensate che essa sia avvilente e noiosa; non pensate che essa si conservi in forza di una certa mansuetudine, anzi di remissività e di negligenza. Non così essa si conserva. Non credere allora di amare il tuo servo, per il fatto che non lo percuoti; oppure che ami tuo figlio, per il fatto che non lo castighi; o che ami il tuo vicino allorquando non lo rimproveri; questa non è carità, ma trascuratezza. Sia fervida la carità nel correggere, nell’emendare; se i costumi sono buoni, questo ti rallegri; se sono cattivi, siano emendati, siano corretti. Non voler amare l’errore nell’uomo, ma l’uomo; Dio infatti fece l’uomo, l’uomo invece fece l’errore. Ama ciò che fece Dio, non amare ciò che fece l’uomo stesso. Amare quello significa distruggere questo: quando ami l’uno, correggi l’altro. Anche se qualche volta ti mostri crudele, ciò avvenga per il desiderio di correggere. Ecco perché la carità è simboleggiata dalla colomba che venne sopra il Signore (cf. Mt 3, 16). Quella figura cioè di colomba, con cui venne lo Spirito Santo per infondere la carità in noi. Perché questo? Una colomba non ha fiele: tuttavia in difesa del nido combatte col becco e con le penne, colpisce senza amarezza. Anche un padre fa questo; quando castiga il figlio, lo castiga per correggerlo. Come ho detto, il mercante, per vendere, blandisce ma è duro nel cuore: il padre per correggere castiga ma è senza fiele. Tali siate anche voi verso tutti. Ecco, o fratelli, un grande esempio, una grande regola: ciascuno ha figli o vuole averli; oppure, se ha deciso di non avere assolutamente figli dalla carne, desidera per lo meno averne spiritualmente: chi è che non corregge il proprio figlio? Chi è quel padre che non dà castighi (cf. Eb. 12, 7)? E tuttavia sembra che egli infierisca. L’amore infierisce, la carità infierisce: ma infierisce, in certo qual modo, senza veleno, al modo delle colombe e non dei corvi. Questo mi ha ricordato, fratelli miei, di dirvi che quei violatori della carità hanno operato scisma: come odiano la carità, così odiano la colomba. Ma la colomba li accusa: essa proviene dal cielo, i cieli si aprono, resta sopra la testa del Signore. E perché? Per udire: Questi è colui che battezza (Gv 1, 33). Allontanatevi, o predoni; allontanatevi, o invasori della proprietà di Cristo. Nelle vostre proprietà, dove volete fare da padroni, avete osato affiggere i
titoli del Signore. Egli conosce i suoi titoli; rivendica la sua proprietà; non distrugge i titoli, ma entra e prende possesso. Così non viene distrutto il battesimo di chi viene alla Chiesa Cattolica, affinché non venga distrutto il titolo del suo Re. Ma che cosa avviene nella Chiesa Cattolica? Il titolo viene riconosciuto; il possessore entra sotto i suoi propri titoli, là dove il predone entrava con titoli non suoi.
venerdì 24 luglio 2009
giovedì 23 luglio 2009
Roma: la protesta dei disabili finisce con le multe per intralcio al traffico. Linea dura della polizia contro i manifestanti in carrozzina.
Oltre al danno, pure la beffa: hanno chiesto loro i documenti, li hanno filmati e li hanno tutti multati per intralcio al traffico e blocco stradale. Mattinata calda per le persone con disabilità alla manifestazione di protesta davanti ai cancelli della sede della regione Lazio a Roma. A ricevere a casa un verbale di contestazione infatti non saranno le automobili parcheggiate momentaneamente in seconda fila per consentire ai disabili di risalire su pulmini e vetture attrezzate, ma proprio le persone disabili in carrozzina che durante la manifestazione hanno stazionato sul manto stradale di via Rosa Raimondi Garibaldi, la via – laterale rispetto alla grande arteria stradale della Cristoforo Colombo – in cui si è assiepato il gruppo di circa duecento persone composto da disabili, loro familiari e operatori dei centri di riabilitazione.A quanto pare, l’autorizzazione arrivata dalla questura prevedeva che i manifestanti potessero sostare solamente sul marciapiede: il grande numero di persone ha però “sconfinato” sul manto stradale e la strada è stata chiusa al traffico. Fra la sorpresa e l’incredulità generale, il responsabile dell’ordine pubblico, Roberto Vitanzo, ha detto a manifestanti e giornalisti che “un gruppo di persone hanno impedito il flusso del traffico: ad ognuno di loro verrà recapitato un verbale”. Vitanzo ha affermato che “abbiamo dovuto chiudere la strada perché non potevamo caricarli in quanto disabili, però li abbiamo filmati e procederemo alla loro identificazione per blocco stradale”. Lungo l’intero arco della manifestazione, la zona era stata presidiata la polizia e carabinieri in tenuta antisommossa, con vetture di servizio e camionette, per una presenza complessiva stimabile fra i trenta e i quaranta operatori delle forze dell’ordine.
23 Luglio 2009
Che vergogna.......
23 Luglio 2009
Che vergogna.......
venerdì 10 luglio 2009
Il cattocomunisto non è morto.
di Padre Piero Gheddo
L'infatuazione di tanti cattolici per il comunismo, tipica degli anni Settanta, ha provocato seri danni e lasciato tracce evidenti ancora oggi. Il rimedio? Tornare ad annunciare Cristo e nessun altro.
[Da «il Timone» n. 56, Settembre/Ottobre 2006]
Galli della Loggia afferma ("Corriere della Sera", 18 giugno 2006) che il catto-comunismo è morto. Personalmente non ne sono convinto. Ho visto nascere e affermarsi questo surrogato della fede cristiana e ricordo molto bene quanto la Chiesa ha sofferto in quegli anni. Paolo VI è stato il Papa martire del secolo XX per quella ventata di follia ideologica che lo contestava aspramente, quando, per citare un fatto simbolico, il Papa fu costretto a ritirare l’assistente ecclesiastico da associazioni nate nell’ambito cattolico e approdate nell’adesione a ideologie e modelli di società condannati dalla Chiesa. Dopo il crollo del muro di Berlino (1989) e di quasi tutti i 31 paesi a regime comunista nel mondo, è scomparso il sogno di una “rivoluzione mondiale”, sono sfioriti i miti della Cina di Mao, la Cuba di Fidel Castro, il Vietnam di Ho Chi Minh e le molte “guerriglie di liberazione”. In questo senso il catto-comunismo è morto, ma temo che la mentalità profonda generata da quella follia ideologica è ancora ben viva in alcune stampe e gruppi e associazioni di radice cristiana.
Per “cattocomunismo” non s’intende quello storico di Franco Rodano e Claudio Napoleoni, nato durante la Resistenza e nel dopoguerra confluito nel PCI con il “Partito della sinistra cristiana”; ma quello popolare e movimentista, nato dal dissenso cattolico nel “sessantotto” del post-Concilio e poi in Cile nel 1972 con “i cristiani per il socialismo”, quando era comune sentir dire in ambienti cattolici che “il socialismo è l’unica speranza dei poveri”. Vedo nel “catto-comunismo” tre elementi che penso sussistano tutt’oggi, ripeto, come mentalità di fondo.
1) Anzitutto il complesso d’inferiorità dei cattolici per quanto riguarda la capacità di leggere la società e la storia: si pensava che, in campo sociale e politico, i comunisti avessero dei criteri di giudizio più corretti, storicamente più efficaci. A quel tempo si leggeva sulla stampa cattolica (anche di studio) che “la Chiesa non ha elementi per dare giudizi sulle realtà politico-economico-sociale del nostro tempo… Bisogna ricorrere all’analisi scientifica della società condotta da Marx e dai suoi discendenti”. Era politicamente corretto non parlare della “Dottrina sociale della Chiesa”; Paolo VI aveva usato questa terminologia nel Sinodo episcopale sulla giustizia nel mondo nell’ottobre 1971, ma in seguito preferì usare altre parole per non essere definito reazionario. Chi ha rilanciato con forza la “Dottrina sociale della Chiesa” è stato Giovanni Paolo II nel suo primo viaggio internazionale a Puebla (Messico, gennaio 1979), parlando dei problemi sociali dell’America Latina.
2) L’ideologia cattocomunista diceva che per una buona convivenza civile nella società italiana dominata da una “cultura” sempre meno cristiana, il primato era da dare alla dimensione orizzontale della vita, ai problemi sociali; il che poi portava con sé il primato dello stato, del “servizio pubblico”, con la demonizzazione di scuole cattoliche e ospedali cattolici (definiti “per i ricchi”). Era già chiaro a quel tempo che per “servire i poveri” la statalizzazione di tutti i servizi e le attività sociali ed economiche non solo non è positiva, ma diventa facilmente e quasi inevitabilmente negativa dei poveri stessi; anche qui, è un giudizio che non tiene conto dei fattori spirituali e culturali, ma solo di quelli materiali, economici, politici. Quando il cattocomunismo si affermava, i modelli esaltati di liberazione dei poveri erano appunto la Cina di Mao, il Vietnam di Ho Chi Minh, il Mozambico di Samora Machel e via dicendo; insomma i paesi a regime comunista, che hanno schiavizzato i loro popoli, peggiorando le loro condizioni di vita. Ma poteva venire qualcosa di buono da ideologie e regimi che combattevano Dio e perseguitavano la Chiesa?
3) Il terzo aspetto negativo del cattocomunismo, conseguenza di quanto sopra, è secondo me una diminuzione dell’affetto per la Chiesa cattolica e, in ultima analisi, un appannamento della fede e dell’appartenenza alla comunità di Cristo che ci trasmette la fede, il dono più grande che Dio ci ha fatto dopo la vita. Certamente solo Dio vede la fede nel cuore e nei pensieri di ciascuno, ma noi tutti sperimentiamo che la fede non è solo un fatto di intelletto, ma anche di cuore, di passione; e questo vale anche per la preghiera, cibo indispensabile e quotidiano per mantenere la fede: si prega bene quando ci si sente a casa propria, quando tutta la persona è contenta e ringrazia Dio di averle dato la fede e la Chiesa. Se invece viene meno per vari motivi l’amore, la passione e la gioia di appartenere alla Chiesa, tutto il resto è in pericolo.
Dico questo non per un preconcetto aprioristico, ma per concrete esperienze fatte in quegli anni. Il comunismo non era (e non è, per quel che ancora sussiste) un semplice partito e progetto politico, ma un’ideologia sostitutiva della religione e tutti i suoi principi e processi storici sono stati condannati più e più volte dalla Chiesa universale e dalle Chiese locali che l’hanno sperimentato. Possibile che la Chiesa abbia sempre sbagliato nel giudicare un movimento durato più d’un secolo? Personalmente ho conosciuto sacerdoti e laici credenti che negli anni settanta erano conquistati da questa ideologia con barbagli messianici, religiosi. Erano talmente convinti del pensiero e delle soluzioni che erano quelle del comunismo e dei partiti comunisti, da allontanarsi a poco a poco dalla Chiesa, da cui finivano per trovarsi fuori quasi senza volerlo. Ma tutta la loro vita era cambiata, mentalità, giudizi, compagnie, discorsi, letture. Debbo anche dire che a volte questi amici erano i più generosi, ricchi di umanità. Paolo VI diceva, nel discorso della Pasqua 1970 (mi pare) che “i più grandi valori umani senza Cristo diventano facilmente disumani”. Frase fortissima su cui bisognerebbe riflettere.
La domanda che dobbiamo farci è questa: cosa verrà dopo il catto-comunismo? Galli della Loggia prevede che il movimento finisca in un’ideologia libertaria, radicale e consumista, dominante anche nella sinistra italiana. Come credente e missionario prego e spero che ci sia invece uno sbocco positivo di un’esperienza che aveva certamente una grande carica morale ed ideale, come tutto il “sessantotto” del resto, quando personalmente facevo conferenze intitolate: “Vogliamo tutti un mondo nuovo, ma a partire da Cristo”; il catto-comunismo partiva invece dall’”analisi scientifica della società”, che era quella marxista-leninista-maoista. Credo si debba tornare all’unità d’intenti e di azione del movimento cattolico italiano e alla “missione alle genti” secondo il Vaticano II e la “Evangelii Nuntiandi” di Paolo VI (1975) e la “Redemptoris Missio” di Giovanni Paolo II (1990).
In altre parole, specialmente oggi, nel tempo della globalizzazione e della sfida dell’islam ai cristiani, per noi missionari la priorità dev’essere molto chiara e condivisa: tornare ad annunziare Cristo. Ad esempio, se invece di una lettura economicista e ideologica della povertà del terzo mondo a cui non crede più nessuno (“Loro sono poveri perché noi siamo ricchi”), ci impegnassimo tutti assieme a trasmettere l’esperienza delle giovani Chiese, che tutti i popoli e le culture hanno anzitutto bisogno di Gesù Cristo e che i missionari sono inviati ai popoli soprattutto per questo scopo? Madre Teresa diceva: “La più grande disgrazia dell’India è di non conoscere Gesù Cristo”. La lotta contro la fame nel mondo ha bisogno di ricuperare questa verità, necessaria anche in Italia per sollevarci dal nostro disumano modello di sviluppo e ridare al nostro popolo l’unico orizzonte autentico di speranza in un futuro migliore.
Ricorda
«Qui ci limiteremo a dire che la scarsa presenza della cultura cristiana nel dibattito culturale contemporaneo (incredibile, dopo che la storia ha dimostrato in pieno, nel nostro secolo, la fondatezza di tutti i suoi assunti) è causata sopratutto dall’azione di quei cattolici. i quali, chiudendo gli occhi sulle terrificanti cose che tutti abbiamo vissuto, preferiscono seguire le indicazioni di alcuni falsi maestri ormai scomparsi, e vedere nei comunisti e nelle sinistre ’laiche’ i più efficaci difensori degli interessi dei poveri e della gente meno difesa. L’amore evangelico (oggi si usa dire ’la solidarietà’) per i poveri, determina perciò quei cattolici alla collaborazione sistematica coi comunisti e i loro eredi, e con le sinistre in genere, verso cui - sopratutto certi sprovveduti - assumono atteggiamenti quasi da discepolo a maestro». (Eugenio Corti, "Le responsabilità della cultura occidentale nelle grandi stragi del nostro secolo", Mimep-Docete 1998, p. 29).
L'infatuazione di tanti cattolici per il comunismo, tipica degli anni Settanta, ha provocato seri danni e lasciato tracce evidenti ancora oggi. Il rimedio? Tornare ad annunciare Cristo e nessun altro.
[Da «il Timone» n. 56, Settembre/Ottobre 2006]
Galli della Loggia afferma ("Corriere della Sera", 18 giugno 2006) che il catto-comunismo è morto. Personalmente non ne sono convinto. Ho visto nascere e affermarsi questo surrogato della fede cristiana e ricordo molto bene quanto la Chiesa ha sofferto in quegli anni. Paolo VI è stato il Papa martire del secolo XX per quella ventata di follia ideologica che lo contestava aspramente, quando, per citare un fatto simbolico, il Papa fu costretto a ritirare l’assistente ecclesiastico da associazioni nate nell’ambito cattolico e approdate nell’adesione a ideologie e modelli di società condannati dalla Chiesa. Dopo il crollo del muro di Berlino (1989) e di quasi tutti i 31 paesi a regime comunista nel mondo, è scomparso il sogno di una “rivoluzione mondiale”, sono sfioriti i miti della Cina di Mao, la Cuba di Fidel Castro, il Vietnam di Ho Chi Minh e le molte “guerriglie di liberazione”. In questo senso il catto-comunismo è morto, ma temo che la mentalità profonda generata da quella follia ideologica è ancora ben viva in alcune stampe e gruppi e associazioni di radice cristiana.
Per “cattocomunismo” non s’intende quello storico di Franco Rodano e Claudio Napoleoni, nato durante la Resistenza e nel dopoguerra confluito nel PCI con il “Partito della sinistra cristiana”; ma quello popolare e movimentista, nato dal dissenso cattolico nel “sessantotto” del post-Concilio e poi in Cile nel 1972 con “i cristiani per il socialismo”, quando era comune sentir dire in ambienti cattolici che “il socialismo è l’unica speranza dei poveri”. Vedo nel “catto-comunismo” tre elementi che penso sussistano tutt’oggi, ripeto, come mentalità di fondo.
1) Anzitutto il complesso d’inferiorità dei cattolici per quanto riguarda la capacità di leggere la società e la storia: si pensava che, in campo sociale e politico, i comunisti avessero dei criteri di giudizio più corretti, storicamente più efficaci. A quel tempo si leggeva sulla stampa cattolica (anche di studio) che “la Chiesa non ha elementi per dare giudizi sulle realtà politico-economico-sociale del nostro tempo… Bisogna ricorrere all’analisi scientifica della società condotta da Marx e dai suoi discendenti”. Era politicamente corretto non parlare della “Dottrina sociale della Chiesa”; Paolo VI aveva usato questa terminologia nel Sinodo episcopale sulla giustizia nel mondo nell’ottobre 1971, ma in seguito preferì usare altre parole per non essere definito reazionario. Chi ha rilanciato con forza la “Dottrina sociale della Chiesa” è stato Giovanni Paolo II nel suo primo viaggio internazionale a Puebla (Messico, gennaio 1979), parlando dei problemi sociali dell’America Latina.
2) L’ideologia cattocomunista diceva che per una buona convivenza civile nella società italiana dominata da una “cultura” sempre meno cristiana, il primato era da dare alla dimensione orizzontale della vita, ai problemi sociali; il che poi portava con sé il primato dello stato, del “servizio pubblico”, con la demonizzazione di scuole cattoliche e ospedali cattolici (definiti “per i ricchi”). Era già chiaro a quel tempo che per “servire i poveri” la statalizzazione di tutti i servizi e le attività sociali ed economiche non solo non è positiva, ma diventa facilmente e quasi inevitabilmente negativa dei poveri stessi; anche qui, è un giudizio che non tiene conto dei fattori spirituali e culturali, ma solo di quelli materiali, economici, politici. Quando il cattocomunismo si affermava, i modelli esaltati di liberazione dei poveri erano appunto la Cina di Mao, il Vietnam di Ho Chi Minh, il Mozambico di Samora Machel e via dicendo; insomma i paesi a regime comunista, che hanno schiavizzato i loro popoli, peggiorando le loro condizioni di vita. Ma poteva venire qualcosa di buono da ideologie e regimi che combattevano Dio e perseguitavano la Chiesa?
3) Il terzo aspetto negativo del cattocomunismo, conseguenza di quanto sopra, è secondo me una diminuzione dell’affetto per la Chiesa cattolica e, in ultima analisi, un appannamento della fede e dell’appartenenza alla comunità di Cristo che ci trasmette la fede, il dono più grande che Dio ci ha fatto dopo la vita. Certamente solo Dio vede la fede nel cuore e nei pensieri di ciascuno, ma noi tutti sperimentiamo che la fede non è solo un fatto di intelletto, ma anche di cuore, di passione; e questo vale anche per la preghiera, cibo indispensabile e quotidiano per mantenere la fede: si prega bene quando ci si sente a casa propria, quando tutta la persona è contenta e ringrazia Dio di averle dato la fede e la Chiesa. Se invece viene meno per vari motivi l’amore, la passione e la gioia di appartenere alla Chiesa, tutto il resto è in pericolo.
Dico questo non per un preconcetto aprioristico, ma per concrete esperienze fatte in quegli anni. Il comunismo non era (e non è, per quel che ancora sussiste) un semplice partito e progetto politico, ma un’ideologia sostitutiva della religione e tutti i suoi principi e processi storici sono stati condannati più e più volte dalla Chiesa universale e dalle Chiese locali che l’hanno sperimentato. Possibile che la Chiesa abbia sempre sbagliato nel giudicare un movimento durato più d’un secolo? Personalmente ho conosciuto sacerdoti e laici credenti che negli anni settanta erano conquistati da questa ideologia con barbagli messianici, religiosi. Erano talmente convinti del pensiero e delle soluzioni che erano quelle del comunismo e dei partiti comunisti, da allontanarsi a poco a poco dalla Chiesa, da cui finivano per trovarsi fuori quasi senza volerlo. Ma tutta la loro vita era cambiata, mentalità, giudizi, compagnie, discorsi, letture. Debbo anche dire che a volte questi amici erano i più generosi, ricchi di umanità. Paolo VI diceva, nel discorso della Pasqua 1970 (mi pare) che “i più grandi valori umani senza Cristo diventano facilmente disumani”. Frase fortissima su cui bisognerebbe riflettere.
La domanda che dobbiamo farci è questa: cosa verrà dopo il catto-comunismo? Galli della Loggia prevede che il movimento finisca in un’ideologia libertaria, radicale e consumista, dominante anche nella sinistra italiana. Come credente e missionario prego e spero che ci sia invece uno sbocco positivo di un’esperienza che aveva certamente una grande carica morale ed ideale, come tutto il “sessantotto” del resto, quando personalmente facevo conferenze intitolate: “Vogliamo tutti un mondo nuovo, ma a partire da Cristo”; il catto-comunismo partiva invece dall’”analisi scientifica della società”, che era quella marxista-leninista-maoista. Credo si debba tornare all’unità d’intenti e di azione del movimento cattolico italiano e alla “missione alle genti” secondo il Vaticano II e la “Evangelii Nuntiandi” di Paolo VI (1975) e la “Redemptoris Missio” di Giovanni Paolo II (1990).
In altre parole, specialmente oggi, nel tempo della globalizzazione e della sfida dell’islam ai cristiani, per noi missionari la priorità dev’essere molto chiara e condivisa: tornare ad annunziare Cristo. Ad esempio, se invece di una lettura economicista e ideologica della povertà del terzo mondo a cui non crede più nessuno (“Loro sono poveri perché noi siamo ricchi”), ci impegnassimo tutti assieme a trasmettere l’esperienza delle giovani Chiese, che tutti i popoli e le culture hanno anzitutto bisogno di Gesù Cristo e che i missionari sono inviati ai popoli soprattutto per questo scopo? Madre Teresa diceva: “La più grande disgrazia dell’India è di non conoscere Gesù Cristo”. La lotta contro la fame nel mondo ha bisogno di ricuperare questa verità, necessaria anche in Italia per sollevarci dal nostro disumano modello di sviluppo e ridare al nostro popolo l’unico orizzonte autentico di speranza in un futuro migliore.
Ricorda
«Qui ci limiteremo a dire che la scarsa presenza della cultura cristiana nel dibattito culturale contemporaneo (incredibile, dopo che la storia ha dimostrato in pieno, nel nostro secolo, la fondatezza di tutti i suoi assunti) è causata sopratutto dall’azione di quei cattolici. i quali, chiudendo gli occhi sulle terrificanti cose che tutti abbiamo vissuto, preferiscono seguire le indicazioni di alcuni falsi maestri ormai scomparsi, e vedere nei comunisti e nelle sinistre ’laiche’ i più efficaci difensori degli interessi dei poveri e della gente meno difesa. L’amore evangelico (oggi si usa dire ’la solidarietà’) per i poveri, determina perciò quei cattolici alla collaborazione sistematica coi comunisti e i loro eredi, e con le sinistre in genere, verso cui - sopratutto certi sprovveduti - assumono atteggiamenti quasi da discepolo a maestro». (Eugenio Corti, "Le responsabilità della cultura occidentale nelle grandi stragi del nostro secolo", Mimep-Docete 1998, p. 29).
venerdì 26 giugno 2009
Che cos'è la verità.
Severino: Noi siamo invitati a parlare della verità. E' importante che si sia stati invitati, perché la cosa peggiore è voler parlare della verità. Quando si vuole parlare della verità, magari si vuol dire che cosa è la verità e magari ci si mette anche a fare propaganda in favore della verità. Cerchiamo quindi tutti di salvaguardare il nostro "essere invitati". Parliamo della verità, perché ci è chiesto; diffidiamo di coloro che invece, in prima persona, si fanno avanti e si propongono di parlare della verità.
Secondo Lei non è riduttivo considerare la verità come un farmaco, come un "rimedio", come un qualcosa che ci protegge, e non come una ricerca un po' superiore a questo, che va oltre?
Nella storia della nostra civiltà, nella storia dell'Occidente, la verità ha avito il compito di essere un "rimedio". Platone diceva ai giovani che bisogna cominciare a fare filosofia intorno ai trent'anni. Perché? Perché i giovani devono ancora imparare a vivere e a soffrire. Il giovane è l'essere umano che soffre poco. Ci rendiamo quindi conto che il dolore è il dato in relazione al quale prendiamo ogni decisione.
Porre, come ha fatto l'Occidente, la verità in relazione al dolore, non è riduttivo. Che la verità abbia avuto il compito di salvare dal dolore non è affatto riduttivo! Però il senso che la verità può avere non si deve ridurre al senso che la verità ha avuto nella cultura occidentale.
Dobbiamo considerare la verità solo come uno strumento, o come qualcosa di più elevato?
La domanda è bella perché bisognerebbe innanzi tutto che ci mettessimo d'accordo sul significato di questa parola: "verità". Penso che parliamo a vanvera se, innanzi tutto, non ci intendiamo sul significato della parola "verità". Penso che l'accertamento del significato di questa parola costituisca l'avventura più straordinaria che l'uomo abbia compiuto.
Che cosa intendo dire? Prima di conquistare i pianeti, prima di conquistare il centro della terra, prima di dominare le civiltà, è necessaria quell'avventura che consiste nel poter sapere qualcosa che non possa essere assolutamente negata. Quindi, innanzi tutto, pensiamo all'evocazione compiuta dai Greci: la verità come l'assolutamente innegabile, ma innegabile in modo tale che né cambiamento di epoche, né mutazione di cultura, né uomini, né Dei la possono cambiare. Neanche un Dio onnipotente può cambiare il contenuto della verità.
Questo è ciò che i Greci pensano. Lo sviluppo della nostra conversazione deve riferirsi a questo nucleo, a questo ombelico, che permane lungo tutta la nostra storia.
Anche quando non si crederà più che esista una verità, ci si riferirà a quel senso che la verità possiede all'inizio, cioè come assoluta innegabilità, incontrovertibilità.
Qual è il rapporto tra l'uomo e la verità. L'uomo alla ricerca della verità, come deve cercarla?
C'è un modo di pensare la verità che non potrà mai condurre alla verità. Si dice che l'uomo cerca la verità: si pensa che la verità sia altrove, perché se la cerchiamo non è qui con noi. Allora ci mettiamo in cammino per cercarla. Questa è l'immagine che lei ha enunciato chiaramente: questa è l'immagine di tutta la tradizione occidentale, anche scientifica. Laggiù c'è la verità, e noi ci diamo da fare per raggiungerla. Magari possiamo, a questo proposito, usare una metafora evangelica, molto bella: ci mettiamo a "bussare alla porta della verità".
Proviamo a riflettere su ciò che implica questa immagine del cammino che si deve percorrere per raggiungere la verità. Se io domando: questo cammino, che deve arrivare alla casa della verità, questo cammino è compiuto nella verità? Può esser compiuto questo cammino nella verità, se ci mettiamo, se partiamo dal principio che la verità sia laggiù, chiusa in una casa? Se la verità è chiusa là, il cammino percorso è nella non verità. Allora se bussiamo alla porta non ci sarà aperto.
Questo che cosa vuol dire? Che se noi ci mettiamo nella prospettiva dominante, in cui la verità è qualche cosa che va ricercato, accostato, a cui ci si debba avvicinare, noi non la troveremo mai. L'alternativa è incominciare a pensare alla verità come ciò in cui noi tutti, già da sempre, siamo. Nell'altro modo il discorso è chiuso, e non arriveremo mai ad una verità lontana.
Esiste una sola verità o sono possibili tante verità?
Quando si parla di verità e si dice: è "l'innegabile", a tal punto che nemmeno un Dio può negarla, ci rifaremo al modo in cui l'intera tradizione occidentale ha inteso la verità, cioè come "una". Una molteplicità di verità si negano tra di loro.
Come può venire in mente il concetto di una molteplicità di verità.? L'idea di una verità molteplice, conflittuale, internamente conflittuale (a verità del cristiano, la verità del marxista, la verità del capitalista, la verità del democratico, la verità del comunista), questo concetto conflittuale di verità è l'esito della distruzione inevitabile di quel grandioso concetto di verità, al quale alludevo prima: la verità come rimedio del dolore.
Tutta la complessa storia dell'Occidente è, per così dire, scandita in due gradi tempi: dapprima si cerca che cosa sia l'innegabile, si cerca di dire cos'è ciò che è innegabile, perché i candidati sono molti.
Negli ultimi duecento anni ci si rende invece conto, attraverso un lungo processo, che il senso tradizionale della verità è destinato a tramontare. Ma il tramonto della verità non è il tramonto di un qualche cosa che si studia nella lezione di filosofia, a scuola. Il senso della verità anima le opere, le istituzioni dell'Occidente: Chiesa, Stato, economia, iniziative pratiche, prassi. Se pensate alla verità come un qualche cosa che non abbia a che vedere con la vita non stareste capendo niente di ciò che il pensiero filosofico ha inteso con questa parola. La verità è ciò che alimenta l'intera tradizione.
Allora io affermo qualcosa di grave: la tradizione filosofica è necessariamente destinata al tramonto. Quel tramonto porta a quel concetto di molteplicità di verità.
Diqui, se noi dovessimo andare avanti a discutere, la discussione dovrebbe prendere questa piega: per quale motivo tramonta quella tradizione, in cui ci sono tutti i grandi valori ai quali noi per lo più crediamo? Il valore della morale, il valore cristiano, il valore democratico, il valore delle leggi naturali, il valore della democrazia.
Lei prima ha ricordato come la verità debba essere un qualcosa che non può essere negato, di inattaccabile. Nel corso della storia si è data come verità, con il Cristianesimo, Dio. "Dio-verità". Lei non pensa che dire "Dio-verità" vuol dire porre come verità il mistero della vita? Affidare a Dio i misteri senza però risolverli, cosa che invece adesso si sta facendo? Lei non pensa a ciò?
Lei dice che la verità emerge. Lei dà un'enfasi particolare al Cristianesimo. Già questo è un qualche cosa che non è possibile accettare, perché, quando il Cristianesimo parla di verità e dice: la verità è Cristo, e Cristo è il figlio Dio, quando il Cristianesimo usa la parola "verità", non la inventa il Cristianesimo.
La parola "verità" non è inventata dal Cristianesimo.
Il Cristianesimo attribuisce alla fede i caratteri che la filosofia greca ha attribuito a quella che Aristotele chiamava "filosofia prima", la "proto-philosophia", cioè verità. Anche Aristotele pensa: l'innegabile, l'indubitabile, il certissimo, l'assolutamente non discutibile. Tutti questi tratti, tutti questi elementi, il Cristianesimo li attribuisce alla fede. Se uno ha fede, non può dire: "Mah, io credo, forse che sì forse che no". No. Chi crede è assolutamente certo, crede di affermare qualche cosa di assolutamente innegabile.
Questo per quanto riguarda l'aspetto "formale" della verità, cioè i caratteri, i tratti della verità. Il Cristianesimo non inventa il senso della verità. Ma non inventa neanche Dio. E non inventa neanche ciò per cui Dio è così caratterizzante all'interno del Cristianesimo, come Dio creatore, perché il concetto cristiano di creazione, è creazione dal nulla, ex nihilo. Il Cristianesimo, la teologia - la grande teologia cristiana, perché si tratta di grandi esperienze che, pur venendo messe in discussione, mantengono una dimensione gigantesca - parla di creazione come creatio ex nihilo. Per il Cristianesimo la creazione è creazione dal nulla? Questo nihil, questo nulla non è inventato dal Cristianesimo, ma sono i Greci per primi a pensare, in un senso assolutamente radicale, il senso del nulla.
Gli imperativi morali possono essere considerati come un risvolto della verità? Un risvolto che rischia d'essere, spesso, soffocante?
Io finora ho lasciato parlare la nostra storia. Non sono io che credo che la verità e Dio sono soffocanti. Io vi ricordo che l'età contemporanea è radicata in questa convinzione. Sono duecento anni che il nostro tempo sta allontanandosi da Dio.
Oggi, ad esempio, si pensa che il Cristianesimo sia in rimonta. Vent'anni fa si pensava al Cristianesiomo come a un grande fenomeno in declino; oggi invece è in rimonta, ma nonostante questo andamento sinsoidale, la direzione generale, la tendenza fondamentale del nostro tempo, è verso il declino di tutte le grandi forme della civiltà.
Questo non sono io a dirlo. Io sono quello che descrive una struttura, che spesso è perduta di vista: questo discorso su Dio non mi appartiene, appartiene alla storia dell'Occidente. Questo non perché io sia un sostenitore di Dio, ma perché sostengo che l'ateo e il credente abbiano un'anima comune. Sia l'ateismo sia l'affermazione di Dio sono lotte in famiglia all'interno di un comune modo di pensare: quel modo di pensare che crede che l'uomo sia un essere effimero, che esce dal nulla e che ritorna nel nulla. In relazione a quel modo di pensare, il credente e l'ateo hanno la stessa anima.
Vale la pensa di sentire il mio discorso solo se non è mio, se non è prodotto di un individuo. Il cosiddetto "mio" discorso allude a qualche cosa che sta oltre la storia dell'Occidente, di cui fin qui abbiamo parlato.
Vorrei riallacciarmi al tema dell'unità e della molteplicità della verità. A mio giudizio occorre capire se, col processo tecnologico, ci sono delle verità che si vengono a scoprire, ed altre verità che vengono confutate. Il processo tecnologico può implicare il raggiungimento di una verità assoluta?
Avevamo accennato al fatto che la tradizione, non soltanto il pensiero dell'Occidente, è destinata a tramontare. Oggi, soprattutto dopo il crollo del socialismo reale, restano in piedi ancora grandi forze della tradizione occidentale. Le indicavamo prima. Lo stesso capitalismo, che è un grande modo di pensare, il comunismo, che è un altro grande modo di pensare, il cristianesimo, la democrazia, ecc. Avevo accennato prima al fatto che ognuna di queste forze oggi in campo crede di servirsi della tecnica per realizzare il proprio mondo di valori. Il cristiano vuol servirsi della tecnica per realizzare il mondo cristiano. Questa è l'illusione, perché la tecnica ha un proprio scopo: quello di incrementare all'infinito la capacità dell'uomo di trasformare il mondo. Questa è la verità dominante all'interno dell'Occidente, è la verità che depotenzia tutte le altre forme di verità all'interno della storia dell'Occidente. Il problema di tutti i problemi è proprio qui. Ma il senso che la verità possiede all'interno della storia dell'Occidente, e per il quale siamo destinati alla civiltà della tecnica, questo senso della verità è l'unico possibile? La mia risposta è un "no" grande come un cielo.
La verità non è mai stata trovata: non abbiamo mai avuto una risposta certa. Secondo Lei non è possibile ipotizzare che la verità stia proprio nell'esistenza, nel vivere, nella "verità come vita"?
La verità non è mai stata trovata perché la possediamo già da sempre. Non è che sia, ripeto, quella casa laggiù in cui si debba entrare. A costo di scandalizzarvi, ricordo che a Gesù, quando è sulla croce, il ladrone dice: "Signore oggi ricordati di me". Gesù gli risponde: "Quest'oggi tu sarai con me in Paradiso". Ciò a cui questo discorso - che tento di portare alla luce, al di là della storia dell'Occidente - porta è l'affermazione: "Badate, voi, noi, tutti, siamo già da sempre in Paradiso".
La radice greca di Paradiso vuol dire "esser presso gli Dei", "essere presso il divino". Quindi io sono lontanissimo dal dire: la verità non è mai stata trovata. Non è mai stata trovata perché l'abbiamo sempre. E' forse il linguaggio - qui verrebbe fuori il tema del linguaggio - che la occulta?
Per tornare al cielo, questa volta non stellato, la verità è come il cielo. Se un cacciatore pensa agli uccelli e spara agli uccelli, non vede il cielo. Ma il cielo splende sempre al di sopra della sua testa. Lui crede di non vedere altro che i volatili, le migrazioni degli uccelli e magari pensa a un cielo e "Chissà mai quando mai lo vedrò! Chissà mai se lo troverò".
No, il cielo è qui da noi. Noi siamo nel cielo.
1997, E.Severino
Secondo Lei non è riduttivo considerare la verità come un farmaco, come un "rimedio", come un qualcosa che ci protegge, e non come una ricerca un po' superiore a questo, che va oltre?
Nella storia della nostra civiltà, nella storia dell'Occidente, la verità ha avito il compito di essere un "rimedio". Platone diceva ai giovani che bisogna cominciare a fare filosofia intorno ai trent'anni. Perché? Perché i giovani devono ancora imparare a vivere e a soffrire. Il giovane è l'essere umano che soffre poco. Ci rendiamo quindi conto che il dolore è il dato in relazione al quale prendiamo ogni decisione.
Porre, come ha fatto l'Occidente, la verità in relazione al dolore, non è riduttivo. Che la verità abbia avuto il compito di salvare dal dolore non è affatto riduttivo! Però il senso che la verità può avere non si deve ridurre al senso che la verità ha avuto nella cultura occidentale.
Dobbiamo considerare la verità solo come uno strumento, o come qualcosa di più elevato?
La domanda è bella perché bisognerebbe innanzi tutto che ci mettessimo d'accordo sul significato di questa parola: "verità". Penso che parliamo a vanvera se, innanzi tutto, non ci intendiamo sul significato della parola "verità". Penso che l'accertamento del significato di questa parola costituisca l'avventura più straordinaria che l'uomo abbia compiuto.
Che cosa intendo dire? Prima di conquistare i pianeti, prima di conquistare il centro della terra, prima di dominare le civiltà, è necessaria quell'avventura che consiste nel poter sapere qualcosa che non possa essere assolutamente negata. Quindi, innanzi tutto, pensiamo all'evocazione compiuta dai Greci: la verità come l'assolutamente innegabile, ma innegabile in modo tale che né cambiamento di epoche, né mutazione di cultura, né uomini, né Dei la possono cambiare. Neanche un Dio onnipotente può cambiare il contenuto della verità.
Questo è ciò che i Greci pensano. Lo sviluppo della nostra conversazione deve riferirsi a questo nucleo, a questo ombelico, che permane lungo tutta la nostra storia.
Anche quando non si crederà più che esista una verità, ci si riferirà a quel senso che la verità possiede all'inizio, cioè come assoluta innegabilità, incontrovertibilità.
Qual è il rapporto tra l'uomo e la verità. L'uomo alla ricerca della verità, come deve cercarla?
C'è un modo di pensare la verità che non potrà mai condurre alla verità. Si dice che l'uomo cerca la verità: si pensa che la verità sia altrove, perché se la cerchiamo non è qui con noi. Allora ci mettiamo in cammino per cercarla. Questa è l'immagine che lei ha enunciato chiaramente: questa è l'immagine di tutta la tradizione occidentale, anche scientifica. Laggiù c'è la verità, e noi ci diamo da fare per raggiungerla. Magari possiamo, a questo proposito, usare una metafora evangelica, molto bella: ci mettiamo a "bussare alla porta della verità".
Proviamo a riflettere su ciò che implica questa immagine del cammino che si deve percorrere per raggiungere la verità. Se io domando: questo cammino, che deve arrivare alla casa della verità, questo cammino è compiuto nella verità? Può esser compiuto questo cammino nella verità, se ci mettiamo, se partiamo dal principio che la verità sia laggiù, chiusa in una casa? Se la verità è chiusa là, il cammino percorso è nella non verità. Allora se bussiamo alla porta non ci sarà aperto.
Questo che cosa vuol dire? Che se noi ci mettiamo nella prospettiva dominante, in cui la verità è qualche cosa che va ricercato, accostato, a cui ci si debba avvicinare, noi non la troveremo mai. L'alternativa è incominciare a pensare alla verità come ciò in cui noi tutti, già da sempre, siamo. Nell'altro modo il discorso è chiuso, e non arriveremo mai ad una verità lontana.
Esiste una sola verità o sono possibili tante verità?
Quando si parla di verità e si dice: è "l'innegabile", a tal punto che nemmeno un Dio può negarla, ci rifaremo al modo in cui l'intera tradizione occidentale ha inteso la verità, cioè come "una". Una molteplicità di verità si negano tra di loro.
Come può venire in mente il concetto di una molteplicità di verità.? L'idea di una verità molteplice, conflittuale, internamente conflittuale (a verità del cristiano, la verità del marxista, la verità del capitalista, la verità del democratico, la verità del comunista), questo concetto conflittuale di verità è l'esito della distruzione inevitabile di quel grandioso concetto di verità, al quale alludevo prima: la verità come rimedio del dolore.
Tutta la complessa storia dell'Occidente è, per così dire, scandita in due gradi tempi: dapprima si cerca che cosa sia l'innegabile, si cerca di dire cos'è ciò che è innegabile, perché i candidati sono molti.
Negli ultimi duecento anni ci si rende invece conto, attraverso un lungo processo, che il senso tradizionale della verità è destinato a tramontare. Ma il tramonto della verità non è il tramonto di un qualche cosa che si studia nella lezione di filosofia, a scuola. Il senso della verità anima le opere, le istituzioni dell'Occidente: Chiesa, Stato, economia, iniziative pratiche, prassi. Se pensate alla verità come un qualche cosa che non abbia a che vedere con la vita non stareste capendo niente di ciò che il pensiero filosofico ha inteso con questa parola. La verità è ciò che alimenta l'intera tradizione.
Allora io affermo qualcosa di grave: la tradizione filosofica è necessariamente destinata al tramonto. Quel tramonto porta a quel concetto di molteplicità di verità.
Diqui, se noi dovessimo andare avanti a discutere, la discussione dovrebbe prendere questa piega: per quale motivo tramonta quella tradizione, in cui ci sono tutti i grandi valori ai quali noi per lo più crediamo? Il valore della morale, il valore cristiano, il valore democratico, il valore delle leggi naturali, il valore della democrazia.
Lei prima ha ricordato come la verità debba essere un qualcosa che non può essere negato, di inattaccabile. Nel corso della storia si è data come verità, con il Cristianesimo, Dio. "Dio-verità". Lei non pensa che dire "Dio-verità" vuol dire porre come verità il mistero della vita? Affidare a Dio i misteri senza però risolverli, cosa che invece adesso si sta facendo? Lei non pensa a ciò?
Lei dice che la verità emerge. Lei dà un'enfasi particolare al Cristianesimo. Già questo è un qualche cosa che non è possibile accettare, perché, quando il Cristianesimo parla di verità e dice: la verità è Cristo, e Cristo è il figlio Dio, quando il Cristianesimo usa la parola "verità", non la inventa il Cristianesimo.
La parola "verità" non è inventata dal Cristianesimo.
Il Cristianesimo attribuisce alla fede i caratteri che la filosofia greca ha attribuito a quella che Aristotele chiamava "filosofia prima", la "proto-philosophia", cioè verità. Anche Aristotele pensa: l'innegabile, l'indubitabile, il certissimo, l'assolutamente non discutibile. Tutti questi tratti, tutti questi elementi, il Cristianesimo li attribuisce alla fede. Se uno ha fede, non può dire: "Mah, io credo, forse che sì forse che no". No. Chi crede è assolutamente certo, crede di affermare qualche cosa di assolutamente innegabile.
Questo per quanto riguarda l'aspetto "formale" della verità, cioè i caratteri, i tratti della verità. Il Cristianesimo non inventa il senso della verità. Ma non inventa neanche Dio. E non inventa neanche ciò per cui Dio è così caratterizzante all'interno del Cristianesimo, come Dio creatore, perché il concetto cristiano di creazione, è creazione dal nulla, ex nihilo. Il Cristianesimo, la teologia - la grande teologia cristiana, perché si tratta di grandi esperienze che, pur venendo messe in discussione, mantengono una dimensione gigantesca - parla di creazione come creatio ex nihilo. Per il Cristianesimo la creazione è creazione dal nulla? Questo nihil, questo nulla non è inventato dal Cristianesimo, ma sono i Greci per primi a pensare, in un senso assolutamente radicale, il senso del nulla.
Gli imperativi morali possono essere considerati come un risvolto della verità? Un risvolto che rischia d'essere, spesso, soffocante?
Io finora ho lasciato parlare la nostra storia. Non sono io che credo che la verità e Dio sono soffocanti. Io vi ricordo che l'età contemporanea è radicata in questa convinzione. Sono duecento anni che il nostro tempo sta allontanandosi da Dio.
Oggi, ad esempio, si pensa che il Cristianesimo sia in rimonta. Vent'anni fa si pensava al Cristianesiomo come a un grande fenomeno in declino; oggi invece è in rimonta, ma nonostante questo andamento sinsoidale, la direzione generale, la tendenza fondamentale del nostro tempo, è verso il declino di tutte le grandi forme della civiltà.
Questo non sono io a dirlo. Io sono quello che descrive una struttura, che spesso è perduta di vista: questo discorso su Dio non mi appartiene, appartiene alla storia dell'Occidente. Questo non perché io sia un sostenitore di Dio, ma perché sostengo che l'ateo e il credente abbiano un'anima comune. Sia l'ateismo sia l'affermazione di Dio sono lotte in famiglia all'interno di un comune modo di pensare: quel modo di pensare che crede che l'uomo sia un essere effimero, che esce dal nulla e che ritorna nel nulla. In relazione a quel modo di pensare, il credente e l'ateo hanno la stessa anima.
Vale la pensa di sentire il mio discorso solo se non è mio, se non è prodotto di un individuo. Il cosiddetto "mio" discorso allude a qualche cosa che sta oltre la storia dell'Occidente, di cui fin qui abbiamo parlato.
Vorrei riallacciarmi al tema dell'unità e della molteplicità della verità. A mio giudizio occorre capire se, col processo tecnologico, ci sono delle verità che si vengono a scoprire, ed altre verità che vengono confutate. Il processo tecnologico può implicare il raggiungimento di una verità assoluta?
Avevamo accennato al fatto che la tradizione, non soltanto il pensiero dell'Occidente, è destinata a tramontare. Oggi, soprattutto dopo il crollo del socialismo reale, restano in piedi ancora grandi forze della tradizione occidentale. Le indicavamo prima. Lo stesso capitalismo, che è un grande modo di pensare, il comunismo, che è un altro grande modo di pensare, il cristianesimo, la democrazia, ecc. Avevo accennato prima al fatto che ognuna di queste forze oggi in campo crede di servirsi della tecnica per realizzare il proprio mondo di valori. Il cristiano vuol servirsi della tecnica per realizzare il mondo cristiano. Questa è l'illusione, perché la tecnica ha un proprio scopo: quello di incrementare all'infinito la capacità dell'uomo di trasformare il mondo. Questa è la verità dominante all'interno dell'Occidente, è la verità che depotenzia tutte le altre forme di verità all'interno della storia dell'Occidente. Il problema di tutti i problemi è proprio qui. Ma il senso che la verità possiede all'interno della storia dell'Occidente, e per il quale siamo destinati alla civiltà della tecnica, questo senso della verità è l'unico possibile? La mia risposta è un "no" grande come un cielo.
La verità non è mai stata trovata: non abbiamo mai avuto una risposta certa. Secondo Lei non è possibile ipotizzare che la verità stia proprio nell'esistenza, nel vivere, nella "verità come vita"?
La verità non è mai stata trovata perché la possediamo già da sempre. Non è che sia, ripeto, quella casa laggiù in cui si debba entrare. A costo di scandalizzarvi, ricordo che a Gesù, quando è sulla croce, il ladrone dice: "Signore oggi ricordati di me". Gesù gli risponde: "Quest'oggi tu sarai con me in Paradiso". Ciò a cui questo discorso - che tento di portare alla luce, al di là della storia dell'Occidente - porta è l'affermazione: "Badate, voi, noi, tutti, siamo già da sempre in Paradiso".
La radice greca di Paradiso vuol dire "esser presso gli Dei", "essere presso il divino". Quindi io sono lontanissimo dal dire: la verità non è mai stata trovata. Non è mai stata trovata perché l'abbiamo sempre. E' forse il linguaggio - qui verrebbe fuori il tema del linguaggio - che la occulta?
Per tornare al cielo, questa volta non stellato, la verità è come il cielo. Se un cacciatore pensa agli uccelli e spara agli uccelli, non vede il cielo. Ma il cielo splende sempre al di sopra della sua testa. Lui crede di non vedere altro che i volatili, le migrazioni degli uccelli e magari pensa a un cielo e "Chissà mai quando mai lo vedrò! Chissà mai se lo troverò".
No, il cielo è qui da noi. Noi siamo nel cielo.
1997, E.Severino
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